“Per me non sei una statistica, un numero, una massa informe ma sei un volto, una storia, una figlia, un figlio amato da sempre e per sempre” (Card. Domenico Battaglia)
La fede non vive sospesa tra le nuvole, né si nutre solo di parole. Essa respira nella storia, nella carne ferita dell’umanità, nei solchi che il dolore e la speranza tracciano nel cuore del mondo. In questi giorni, segnati da accese riflessioni sul significato della memoria storica – come quella del 16 ottobre 1943, giorno della retata nazifascista nel ghetto di Roma – e da parole forti del Cardinale Parolin sul valore dei viaggi nei luoghi della Shoah, la Chiesa ci ricorda che la memoria non è un dovere solo civile, ma profondamente evangelico.
Memoria come atto d’amore
Visitare Auschwitz non è mai una “gita”. È un pellegrinaggio nel dolore, un silenzio che parla, una ferita che ancora grida. Come ha detto il Cardinale Parolin, “è un gesto di memoria e di solidarietà”. Ogni viaggio nei luoghi dello sterminio è un modo per chinarsi su quelle piaghe e non dimenticare che dietro ogni numero c’era – e c’è – una persona amata, una creatura voluta da Dio.
La banalizzazione della memoria è una forma moderna di indifferenza. E l’indifferenza, ha ammonito Papa Francesco, è una delle malattie spirituali più gravi del nostro tempo. Di fronte al riemergere dell’antisemitismo e dell’intolleranza, ricordare è un atto di giustizia, una forma di carità, un’espressione concreta della dottrina sociale della Chiesa.
La dottrina sociale è Vangelo vissuto
Non è un’aggiunta alla teologia, ma – come scrive il Cardinale Domenico Battaglia – la sua “carne”. In una lettera aperta a Papa Leone XIV, l’Arcivescovo di Napoli ci consegna parole che ardono di Vangelo: “Dio discende”, afferma. Discende per liberare (come nel roveto ardente), per servire (come nel cenacolo), per salvare (come sulla croce). Questa è la dinamica dell’Incarnazione, la via francescana per eccellenza: umiltà, vicinanza, tenerezza.
È in questa logica che possiamo comprendere la memoria non solo come ricordo, ma come impegno: impegno a costruire un mondo dove l’odio non abbia più casa, dove la dignità di ogni essere umano sia riconosciuta e difesa. Dove le parole del Vangelo diventino gesti, scelte, vita.
Una Chiesa che accompagna
Non serve una Chiesa che osserva dall’alto. Serve una Chiesa che cammina nella polvere, accanto ai poveri, agli emarginati, ai dimenticati. Una Chiesa che non misura la fede nei riti eseguiti, ma nelle piaghe guarite, nei cuori riconciliati, nella giustizia condivisa. In questo, l’esortazione Dilexi Te di Papa Leone XIV è un faro: ci invita a dire con la vita che “Dio è amore”, e che l’amore si manifesta nel farsi prossimo.
Come san Francesco, anche noi siamo chiamati a discendere
Frate Francesco si è spogliato di tutto per rivestirsi di Cristo e dei poveri. La sua povertà non era rinuncia sterile, ma scelta d’amore. Anche noi, come Chiesa e come società, siamo chiamati a spogliarci dell’indifferenza, dell’orgoglio culturale, delle logiche di esclusione, per far spazio alla memoria viva e all’incontro. I giovani, in particolare, hanno bisogno di testimoni credibili, non di lezioni cattedratiche. I viaggi nei luoghi della sofferenza devono essere accompagnati da parole vere, da silenzi significativi, da sguardi che educano alla compassione.
Conclusione: il futuro ha bisogno di radici
In un mondo che corre, ricordare è rallentare per amare meglio. È riconoscere che ogni gesto di giustizia nasce da una memoria custodita e da una speranza seminata. Che la pace non si costruisce con i proclami, ma con la memoria condivisa e l’impegno quotidiano.
Nel nome del Vangelo, nella scia della Tradizione, con il cuore di Francesco e con lo sguardo rivolto al Cristo crocifisso e risorto, camminiamo come Chiesa che discende, che ricorda, che serve.
Diacono Vittorio Politano