V Domenica di Pasqua:“Come tralci nell’unica vite”

Cari fratelli e sorelle siamo giunti alla V Domenica di Pasqua: Gesù rivela se stesso, mostrando la propria identità e, insieme, la propria relazione con Dio Padre e con i discepoli: “Io sono la vera vite e mio Padre è il vignaiolo. […] Io sono la vite, voi i tralci”.

Ma andiamo subito ad analizzare il brano evangelico di questa domenica e lo facciamo attraverso questi tre verbi molto significativi: Portare, Rimanere e Chiedere.

Ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto” (Gv 15,2). Si inizia con la descrizione dei ruoli, Gesù è la “vera” vite, il padre è l’agricoltore, noi i tralci, Gesù e noi siamo chiamati ad essere una cosa sola!

La potatura è necessaria per portare ancor più frutto. Tante volte è dolorosa, sembra un sacrificio inutile sul momento, eppure è per il nostro bene. Queste potature, questi tagli nella nostra vita sono difficili da accettare a volte, ma occorre ricordare l’amore di Dio che ci interroga tante volte per un bene più grande.

Chiediamo la pazienza davanti alle “potature” che la vita ci presenta. San Paolo scrive: “Tutto concorre al bene per coloro amano Dio” (Rm 8,28). Nella prima lettura si racconta che a Gerusalemme i greci cercavano di ucciderlo perché annunciava Cristo, dunque anche per Paolo le varie potature, non sono sempre state facili da accettare, non siamo soli. Coraggio!

Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5). Il tralcio staccato dalla vite muore, viene gettato e bruciato. Solo chi rimane attaccato a Cristo riceve la “linfa” dello Spirito Santo (seconda lettura: “In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato” 1Gv 3,24).

Questo è il compito del discepolo: rimanere in Gesù. Non si è discepoli solo sapendo delle cose di Cristo, occorre lasciarlo vivere, scegliere, camminare al nostro fianco. Sì, il discepolo di Gesù non è colui che si limita a conoscere il suo insegnamento, ma è colui che rimane saldamente legato a lui in un rapporto di amore, in un radicale coinvolgimento di vita.

Gesù stesso definisce questa relazione attraverso il verbo “rimanere, dimorare”: il discepolo autentico di Gesù è chiamato a vivere con perseveranza in lui, fino a fissare in lui la propria abitazione, a dimorare nella sua parola. Allora tutti noi siamo chiamati a rimanere come Maria che è rimasta sotto la croce del Figlio.

Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto” (Gv 15,7). Davvero diventare discepoli, e diventarlo insieme, non è questione di un’ora, di una stagione della vita, ma è un percorso lungo e faticoso, in cui siamo chiamati a perseverare, a rimanere in comunione con Cristo.

San Giovanni nella seconda lettura afferma: “Qualunque cosa gli chiediamo, la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito” (1Gv 3,23). Dunque, per l’esaudimento delle nostre preghiere non solo occorre rimanere in Gesù, e far rimanere le sue parole in noi, ma tutto deve essere per un bene più grande, osservare i comandamenti e fare ciò che a Lui piace. Il cristiano, colui cioè che prende per vere le parole di Gesù, e cerca di imitarlo.

Glorificare il Padre”, ovvero renderlo presente nel mondo, è possibile ogni volta che restiamo a Gesù attaccati come veri discepoli e portiamo molto frutto (Gv 15,8).

Termino con una domanda a me stesso e a tutti voi: ora, in questo momento dove “rimango”, dove sono attaccato, “da dove” cerco di ricevere vita?

Aiutiamoci a rispondere “non a parole né con la lingua, ma con i fatti e la verità” (1Gv 3,18).

Don Brunello Gallace Valente

Don Brunello Gallace Valente

Presbitero della Vicaria di Serra San Bruno